Il mistero del perdono di Dio, nel sacramento della Confessione, è un concetto assolutamente fuori dalla logica umana.
Ciascuno di noi, infatti, può perdonare il torto subìto da un altro. Solo chi è stato offeso, pertanto, e ha misurato dentro di sé le conseguenze del torto ricevuto può ragionevolmente assumersi la responsabilità di perdonare colui che gli ha arrecato danno.
Fino a qui il nostro ragionamento non fa una piega. Il discorso cambia, però, quando a decidere di perdonare l’errore commesso “a discapito di un altro” è Dio in persona!
Gesù – scriveva il famoso filologo britannico, Clive Staples Lewis – «diceva alla gente che i loro peccati erano perdonati, e lo diceva senza prima consultare chi da quei peccati aveva certamente subìto danno. Si comportava risolutamente come se Egli fosse la principale parte in causa, la persona principalmente offesa da tutte le offese. Ciò ha senso soltanto se Egli era realmente quel Dio le cui leggi sono violate e il cui amore è ferito da ogni peccato. In bocca a chiunque non sia Dio, queste parole denoterebbero, non saprei giudicarle altrimenti, una stoltezza e una presunzione senza eguali in nessun altro personaggio storico».
Se ciascuno di noi può tranquillamente mangiare senza farsi troppe domande sull’effetto nutritivo che il cibo avrà nel suo corpo, perché dubitare della morte salvifica di Cristo e sugli effetti che essa produce su ciascuno di noi? Il pentimento, scrive ancora C.S. Lewis, «è una cosa molto più ardua che cospargersi il corpo di cenere. Vuol dire disimparare tutta la presunzione e la caparbietà cui da migliaia di anni siamo avvezzi. Vuol dire uccidere una parte di sé, subire una specie di morte».
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