Due omelie, nella Veglia di Natale appena celebrata, ci sono sembrate particolarmente significative. Ve ne proponiamo qualche breve passaggio.
La prima è stata dettata dal Rettore del Santuario Mariano diocesano di Altavilla Milicia, monsignor Salvatore Priola, che ha preso spunto dalla pericope evangelica di Luca per sottolineare il significato del “vegliare”; «C’erano in quella regione – si legge nel Vangelo – alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (cfr. Lc 2,1-14).
L’esperienza del vegliare è un’azione liturgica che la Chiesa compie diverse volte durante l’anno, come la veglia di Avvento e Natale, o quella di Pasqua e Pentecoste. «Veglia – ricorda monsignor Priola – chi ha qualcosa di importante da custodire, da non disperdere, da non far morire. I pastori, infatti, vegliavano il gregge perché era tutto il loro tesoro e perché le pecore non venissero sbranate dai lupi, o venissero sottratte da ladri e lestofanti che con abili strategie allontanano il gregge dall’unico e vero pastore che è Cristo».
La Chiesa veglia!? «A volte sì, come i pastori di Betlemme, a volte no, come i discepoli nell’Orto degli Ulivi che si addormentano, benché invitati da Gesù vegliare con lui, mentre Gesù pregava e sudava sangue». «Quando la Chiesa veglia – conclude Priola –, il gregge è salvo e il pastore può pascere le sue pecore, quando la chiesa dorme, e il sonno prende il sopravvento, allora il pastore-agnello viene immolato».
Il parroco di sant’Alberto Magno durante l’omelia della Veglia di Natale, dopo aver adorato il Bambino Gesù posto nel presepe, detta il senso cristiano dell’Incarnazione di Cristo nel mondo. «E’ questa la radice della nostra fede che non bisogna perdere» – dice don Dario Chimenti, indicando il Bambino Gesù contemplato dagli sguardi innocenti dei bambini che siedono tra i primi banchi.
Il Vangelo dell’Evangelista Luca parla chiaro: «oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (cfr. Lc 2,1-14); e ricordando questa pericope evangelica, don Dario indica la stella di Davide (che è stata posta simbolicamente nel presepe parrocchiale), che indica l’unione tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano dove Cristo è l’artefice di ogni mediazione, o per ricordare il senso della discendenza che, da padre in figlio, trasmette i principi della storia sacra, e l’importanza di un’appartenenza a Cristo che non dev’essere perduta.
Il mondo – prosegue don Dario – prova a distrarci sostituendo i simboli del cristianesimo che ci sono stati trasmessi con surrogati moderni e modelli antropologici privi di sostanza, che mirano spesso a farci perdere il significato autentico dell’Eucaristia. Altre “stelle”, potremmo dire, che orientano il nostro sguardo verso priorità diverse rispetto all’amore, la conversione e la salvezza proposte da Cristo. È necessario, dunque, ritornare a contemplare “questo” Bambino, che è fondamento e radice del nuovo Popolo di Dio; San Paolo ci ricorda, infatti che «se le primizie sono sante, lo sarà anche l’impasto; se è santa la radice, lo saranno anche i rami» (Rm 11,16).