La celebre scultura marmorea del Cristo velato, realizzata nel 1753 da Giuseppe Sanmartino, è custodita presso la cappella Sansevero a Napoli. Il suo originale messaggio stilistico, oggetto di leggende, risiede nel velo che, con mirabile leggerezza, sembra rendere ancor più nude le membra martoriate del Cristo. Tale opera possiede un immenso valore simbolico sia dal punto di vista religioso che esoterico. La scelta di rappresentare il Cristo avvolto dal sudario voleva certamente rifarsi a reliquie di altissimo richiamo devozionale come la Sindone che proprio nel 1750 fu straordinariamente esposta a Torino in vista delle nozze tra il futuro Amedeo III e l’infanta di Spagna.
La scultura, originariamente destinata ad essere esposta assieme alle macchine anatomiche nella cripta sotto la cappella, avrebbe garantito la riuscita del percorso alchemico che nella morte prefigurava già la risurrezione. In questo modo si spiega la sua voluta ambiguità che non si sa se voglia descrivere il Cristo morto e da poco adagiato nel sudario o il Salvatore che si sta liberando di esso. A far pensare che si tratti di un corpo in vita sono alcuni dettagli anatomici come: la vena sulla fronte che sembra pulsare, i muscoli in tensione sia degli arti superiori che inferiori e la contrazione del ventre, come se stesse da lì a poco per emettere un respiro. Il Cristo così diviene il prototipo dell’Adepto che sottoposto alle prove dell’iniziazione, può aprire gli occhi dinanzi alla Verità la quale tuttavia, non è altro che sé stesso. Il nesso tra Gesù Crocifisso e Risorto è la potenza vittoriosa di Dio che ha trionfato sul male e sull’ingiustizia che avevano colpito Gesù. Pertanto non più la morte ha la parola finale, ma una nuova vita gloriosa.
Quest’immagine così bella ci ricorda l’amore silenzioso di Dio che continua ad assumere il dolore di ogni uomo che in Lui, sull’altare della Croce, viene trasfigurato in vita. Ritrovarsi nei Suoi occhi è anticipo di eternità, dove, come direbbe Sant’Agostino, «Egli sarà il fine di tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza fastidio, lodato senza stanchezza». Osservando quest’opera sembra di udire quel dialogo avvenuto il Sabato Santo, immaginato da uno scrittore anonimo:
«Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: “Sia con tutti il mio Signore”. E Cristo rispondendo disse ad Adamo: “E con il tuo spirito”. E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: “Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effigie, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mio sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti”».
Dio, nella sua sovranità, costituisce il fondamento e il significato del suo agire, tanto da scegliere di diventare solidale con i perduti attraverso la morte, non semplicemente esteriormente, ma in sostituzione di essi. Nel volto esanime del Cristo morto, ogni uomo riesce ad immedesimarsi e a percepire amata ogni propria piaga. Sanmartino, con mirabile virtuosismo, lascia trasparire, dalle pieghe del velo sul volto del Cristo, un’espressione che sembra contenere tutta la sofferenza del mondo. In quello sguardo ogni uomo potrà immaginare trasfigurato in bellezza il proprio dolore. Infatti, Cristo subì non solo i più atroci tormenti fisici della Passione ma anche quelli psichici di vedere una madre piangere, un popolo condannarlo e subire l’abbandono degli amici e del Padre. Come direbbe Chiara Lubich «Gesù abbandonato è la fede» ed è proprio nell’abbandono che si mostra Figlio di Dio. L’abbandono, infatti, esprime in maniera mirabile la libertà, l’obbedienza e la fede di Cristo.
Se solo l’annuncio cristiano considerasse sempre prioritaria l’umanità del redentore, forse ogni uomo potrebbe percepire Dio non ostile alla carne, ma del tutto solidale ad essa. Pertanto ciò che costituisce l’umanità diverrà luogo teologico e non si dovrà temere più neanche il dolore che come «notte oscura» sarà inteso come il luogo sorgivo del «Sole di giustizia» (Ml 3,20). In questo modo con le parole di San Giovanni della Croce ogni uomo che incontra Cristo potrà dire: «Oh notte che guidasti, oh notte più di un albeggiar cortese! Oh notte che riunisti Amato con amata, amata in Amato sostanziata!».
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Foto tratte da: Museosansevero.it