«Non possiamo solo contemplare il mistero […] ci è dato di esserlo e di appartenervi nel suo approssimarsi a noi donandoci a noi stessi». Credo che queste parole di Secondo Bongiovanni esprimano al meglio i sentimenti di ogni uomo che, alla ricerca di Dio nella propria vita, non si limita solamente a cercare di conoscere ma, scrutando l’orizzonte del mistero, desidera sempre più unirsi ad esso intimamente. L’arte, quale particolareggiato linguaggio della sensibilità religiosa, ha sempre espresso la nostalgia dell’uomo di Dio, divenendo così sintesi iconografica della riflessione teologica e spirituale, oltre che fornire traccia di quel personalissimo dialogo tra l’artista e Dio.
Interessante risulta far riferimento a due celebri opere che, se messe a confronto, sembrano essere apportatrici delle rispettive correnti teologiche di appartenenza relativamente alla comprensione del dogma della Santissima Trinità, ovvero, l’icona della Trinità di Andrej Rublëv per l’Oriente, la quale rappresenta lo Spirito Santo come l’estremo di Dio, cioè, il traboccare della vita d’amore del Padre e del Figlio nella creazione e nella storia, e l’affresco della Trinità di Masaccio per l’Occidente, in cui lo Spirito Santo è l’intimo di Dio, legame d’amore tra il Padre e il Figlio di cui si privilegiano l’unità e l’equi-divinità dei Tre.
Nella prima, viene raffigurata la scena dell’Antico Testamento in cui tre angeli visitano Abramo. La tradizione cristiana da sempre ha visto in quelle tre creature angeliche la Trinità, in quanto ogni visita di Dio deriva dal suo essere Trinità che è relazione d’amore in sé stesso e che si rivela nell’abitare la storia dell’uomo nell’opera della Salvezza. In questa icona le figure vengono come racchiuse da un cerchio ideale che indica l’amore perfetto senza inizio e senza fine. Alcuni critici ricaveranno anche un ottagono, segno dell’Eternità (l’Ottavo giorno) e altri ancora un triangolo. Vi sono poi degli elementi comuni alle tre figure quali i volti, gli scettri e le tuniche di colore azzurro. Le figure sembrerebbero infatti identiche se non fossero differenziate dai colori dei mantelli: quello del Padre, che nessuno ha mai visto, è di un colore trasparente, bianco rosato; quello del Figlio al centro è rosso a richiamare il sangue del suo sacrificio, e quello dello Spirito Santo è verde, colore della natura, della creazione verso la quale dirige la sua azione. La posizione stessa delle tre figure è apportatrice di significato teologico. Il Padre a sinistra è immobile, il Figlio è inclinato verso il Padre e verso il tavolo-altare indicando, con la mano, la sua duplice natura, e infine, lo Spirito che sembra quasi alzarsi per scendere sulla terra, il cui sguardo è rivolto verso quello del Padre e del Figlio. Altri simboli interessanti sono: il tavolo che si riconosce essere un altare dalla finestrella al centro che, come gli altari medievali, permetteva di guardare le reliquie dei martiri lì custodite, ma anche la coppa al centro del tavolo, che pare contenere della carne a simboleggiare il sacrificio di Cristo. Infine, mediante un’osservazione attenta, si può intravedere una seconda coppa grande formata dai profili dei due angeli come a suggerire l’aspetto trinitario del sacrificio del Figlio. Questo spazio si presenta come aperto verso l’osservatore quasi ad invitarlo ad entrare nell’economia trinitaria che è logica di sacrificio. Sullo sfondo si trovano l’edificio che è il tempio di Gerusalemme o la Chiesa in sostituzione della tenda di Giacobbe e, accanto alla figura del Figlio, la quercia, simbolo della Croce che è il nuovo albero della vita.
Ciò che stupisce è che in questa icona, anche lo Spirito Santo, nonostante la “liquidità” del suo manifestarsi, viene rappresentato come una Persona. Nel tempo l’arte cristiana si sforzerà di rappresentare lo Spirito Santo come respiro e vento, secondo il suo nome rivelato. Talvolta viene rappresentato come colomba (come vedremo in Masaccio), altre volte come Respiro comune del Padre e del Figlio ma ciò nonostante risulta sempre difficile nell’arte figurativa esprimere adeguatamente la realtà della Terza Persona della Santissima Trinità. Per questo motivo è utile guardare a un’altra forma d’arte, in modo specifico la musica. Nella fattispecie qui si vuol far riferimento alla tripla fuga tratta dal Kyrie nella Clarvierübung III di Bach. Ogni movimento sembra, infatti, richiamare ciascuna delle persone divine e la terza sembra riferirsi allo Spirito Santo come ad un vento. Così infatti si esprimerà a tal riguardo A. Schweitzer: «La tripla fuga […] è un simbolo della Trinità. Lo stesso tema ricorre in tre fughe connesse, ma ogni volta con un’altra personalità. La prima fuga è calma e maestosa, con un movimento assolutamente uniforme dappertutto; nella seconda il tema sembra essere camuffato, ed è riconoscibile nella sua vera forma solo occasionalmente, come a suggerire l’assunzione divina di una forma terrena; nella terza, esso è trasformato in una raffica di semicrome come se il vento di Pentecoste stesse ruggendo dal cielo».
Infine, l’altra immagine che vogliamo richiamare all’attenzione è la celebre Trinità di Masaccio, nella quale la complessa composizione prevede in basso, un altare sotto il quale è posto uno scheletro accompagnato dalla scritta «io fui già quel che voi siete e quel ch’io son voi ancora sarete», che allude chiaramente alla transitorietà dell’esperienza umana. In un secondo livello, nella parte esterna, troviamo i ritratti dei committenti mentre in quella interna le figure della Vergine Maria e San Giovanni. Alle spalle del Crocifisso si erge la figura del Padre che sorregge il Crocifisso e fra loro si trova lo Spirito Santo in forma di colomba. Tutte le figure sono come comprese all’interno di uno schema triangolare e le persone divine sono disposte secondo un modello iconografico chiamato “Trono di Grazia”.
Una commovente lettura dell’opera la si potrebbe ricavare a partire dall’estrema e insuperabile figura dell’Odégetria accanto al Crocifisso che Masaccio colloca eretta come i pilastri sul fondo. Ella sta ai piedi della Croce, ferma e vigile presentando il Figlio che Giovanni dall’altra parte contempla in preghiera. La donna è giunta a termine di quella sua esperienza che la induce a riconoscere nell’atto del generare quello stesso della Croce. E il Padre, a sua volta, si protende fuori da evidenziare quell’evento straordinario che col suo gesto è compiuto. Tutto all’interno di quel triangolo immaginario si trova in perfetta forma eppure, al centro sta davvero la Croce, reale evento, la cui sofferenza è tutta marcata sul volto della Vergine Maria, volto che sembra essere contratto come se avesse sofferto troppo per piangere ancora, mentre il Padre rivela nel segno dei suoi occhi tutta la forza del suo con-patire. Quest’immagine, così, pensa la Trinità non come superamento della Croce, ma come sua affermazione nell’ombra della relazione tra il Figlio e la Madre.
In quest’immagine sembra essere evocato tutto il Mistero d’Amore che nella Storia della Salvezza, in cui la Croce è momento apice, viene rivelato con tutto il suo splendore. Le parole e le arti si sforzano da secoli per poterne catturare e celebrare la Bellezza, ma non si può che riconoscersi limitati nel dire tanto amore e dal cuore vien da esclamare: «O Deità eterna, o eterna Trinità, che, per l’unione con la divina natura, hai fatto tanto valere il sangue dell’Unigenito Figlio! Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile; e l’anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trinità eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce. […] O abisso, o Trinità eterna, o Deità, o mare profondo! E che più potevi dare a me che te medesimo? Tu sei un fuoco che arde sempre e non si consuma. Sei tu che consumi col tuo calore ogni amor proprio dell’anima» (Santa Caterina da Siena).
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