La morte di Michela Murgia, oltre a provocare un sincero dolore non solo in chi la conosceva personalmente ma anche fra quanti ne seguivano interventi e opinioni, ha innescato un vivace dibattito nel mondo cattolico. Su “Avvenire”, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, sono stati pubblicati numerosi articoli dedicati alla scrittrice sarda che in questi anni era diventata anche un personaggio pubblico a tutto tondo: femminista, sostenitrice di una nuova concezione di famiglia sganciata dai modelli tradizionali, con idee su temi come l’aborto e l’eutanasia che mal si conciliavano con le posizioni della Chiesa.
Eppure Michela Murgia non era atea, anzi: studiosa di teologia, in passato insegnante di religione, attivista dell’Azione cattolica, nell’ultima intervista a “Vanity Fair” ha detto chiaramente di non sentirsi un’estranea rispetto alla comunità cattolica: “La Chiesa deve fare ancora passi da gigante – ha dichiarato – ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci”. Posizione che ha sorpreso e che ha posto anche all’interno del mondo cattolico importanti interrogativi.
Un’interessante riflessione è stata pubblicata proprio su Avvenire, e parte da una domanda di fondo: è possibile per la Chiesa dialogare con quei credenti che, anche su tematiche dirimenti, la pensano diversamente? Come conciliare il diritto di “libero pensiero” col Magistero e i suoi dogmi? La risposta del quotidiano dei vescovi è abbastanza disarmante: “La risposta sembra purtroppo già scritta e si ripete in tanti casi analoghi: l’incomunicabilità. Da un lato la Chiesa ‘istituzionale’ tende a prendere le distanze, almeno pubblicamente, da un figlio o una figlia che può ‘imbarazzare’ […] D’altro canto qualcosa di simmetrico accade di solito nel figlio o nella figlia che dubita, chiede, provoca anche e infine fissa la propria bandiera in un campo diverso – ma non contrapposto – da quello di partenza. La comunità che è stata compagnia in anni importanti per la formazione della personalità si dirada e viene via via sostituita da altre comunità, altre reti, nuove connessioni, diversi circuiti e canali espressivi”. Insomma, un appello alla Chiesa e ai “figli disobbedienti” a parlarsi prima di una rottura che è sempre traumatica.
Articoli come questo hanno animato anche il dibattito sui social ed è su questo che forse è necessario soffermarsi. Al di là del caso specifico di Michela Murgia e al doveroso rispetto nei confronti di una persona che non c’è più ma anche di un’intellettuale che ha difeso le sue idee e i suoi valori con tenacia (e di questo non si può non darne atto), resta la domanda su come conciliare libertà di pensiero e obbedienza al Magistero. Qualcuno pensa che i valori propri della fede siano la base di partenza e che quindi non condividerli crei un inevitabile ostacolo al dialogo; secondo altri, invece, la Chiesa deve fare i conti con l’umanità, con il senso critico dei credenti, evitando l’incomunicabilità ma lasciando le porte aperte per non correre il rischio di perdere per strada i suoi figli.
Probabilmente, come dicevano i latini, la verità sta nel mezzo. Perché se da un lato il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a non ergere muri, a non considerare il mondo come un nemico da cui difendersi e ha consolidato l’idea di una Chiesa in cammino dialogante e accanto alle donne e agli uomini di ogni tempo, dall’altro non possiamo pensare che l’insegnamento della Chiesa possa adattarsi al mutare dei tempi e delle opinioni prevalenti. E il motivo è molto semplice: il “deposito della fede” non è qualcosa che la Chiesa ha inventato e di cui, quindi, ha piena disponibilità, non è qualcosa che si può cambiare a piacimento a seconda delle mode; è qualcosa che la Chiesa ha ricevuto da Cristo stesso e che da duemila anni tramanda mediante la successione apostolica, avendo cura di preservare quanto contenuto nella Tradizione e nella Scrittura.
Peraltro, in questi due millenni le idee e le convinzioni della società occidentale sono profondamente mutate e se la Chiesa avesse dovuto seguirle… avrebbe cambiato i suoi insegnamenti praticamente ogni cinque minuti. Come Chiesa siamo chiamati a procedere incessantemente nella comprensione del disegno divino, a rinnovare i nostri stili comunicativi, a confrontarci con tutti ma senza per questo barattare il consenso con valori che non sono nella nostra disponibilità.
E anche se volessimo farlo, a chi dovremmo dare retta prima? L’esperienza anglicana ha insegnato che tra i fedeli africani e quelli occidentali, per esempio, sussistono ancora profonde differenze sul sacerdozio femminile o sull’omosessualità; nel mondo cattolico sono presenti gruppi più progressisti e gruppi più conservatori e non ci si può affidare al Papa di turno per capire da che parte pende l’ago della bilancia in un dato momento storico. Né si può sostenere l’idea che, in base al proprio vissuto (che va sempre rispettato), ognuno possa decidere da sé cosa è conforme all’insegnamento divino e cosa non lo è, e il riferimento è, in primis, a temi come l’aborto o l’eutanasia. La Chiesa ha il compito fondamentale di annunciare la lieta novella, ma anche il dovere di preservarla dal tempo che scorre e dalla mutevolezza dei costumi o delle opinioni prevalenti: non per difendersi da chissà quale nemico, ma per restare fedele a quella missione che Gesù le ha affidato e che vuole portare l’essere umano all’autentico incontro con Dio, fonte della vera felicità.
Foto: Repubblica
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