Introduzione

La Shoah ebbe inizio nell’anno 5700 (secondo il conteggio del calendario ebraico), il 1939-1940 del calendario civile dell’era che si definisce cristiana. Sono trascorsi otto decenni. Non occorrono gli archivi, bloccati anch’essi dalla guerra in atto tra Hamas e Israele, per conseguire la certezza che alla malvagità umana ci si potrebbe opporre comunque, purché si voglia pagare il prezzo necessario e non si resti immobilizzati dalle banalità comode del “potrebbe andare peggio”.

Neppure durante le vicende più terribili della Seconda guerra mondiale, quando sembrava ormai inevitabile che il nuovo ordine nazionalsocialista avrebbe dominato l’Europa dall’Atlantico agli Urali, si videro interdetti in totale contemporaneità i riti della Pasqua ebraica. La prima sera di Pesach 5703 ebbe inizio la rivolta del ghetto di Varsavia. La ricordiamo ogni anno con il Rituale della Rimembranza. Tuttavia, gli ebrei di New York o di Buenos Aires, di Londra come di Istanbul, e perfino gli ebrei di Stoccolma a poche centinaia di chilometri dalle coste della Polonia occupata, potevano leggere liberamente l’Aggadà di Pesach e sperare che presto si sarebbe tornati a essere “bené chorin”, figli della libertà.

Anche quest’anno, il popolo di Israele uscirà dall’Egitto, in momento storico dove l’odio sembra prevalere sull’amore. Insegna la tradizione ebraica che ognuno deve considerarsi liberato individualmente dalla schiavitù in ארץ מצרים “Erez Mizraim” (Terra d’Egitto). E questo vale fino alla fine del tempo del genere umano. Nonostante è vicina la “Pasqua del Signore”, la sera del passaggio dalla schiavitù alla libertà, il canto della vittoria è quasi trasformato in un lamento penitenziale. Non c’è pace, per i figli di Israele! Cosa chiedere a Dio? Come invocarlo? Innanzitutto, è necessario “liberarsi” dall’oppressione delle ideologie che non permettono di “saltare” dai sentimenti di vendetta, a quelli del perdono. Per questo motivo, ripercorriamo insieme il significato della festa di Pesach (חג הפסחא).

Esodo 12, 1-14: È la Pasqua del Signore

Quella fu una notte di veglia, tenebre e angoscia, che segnò la morte di tutti i primogeniti d’Egitto, tanto degli uomini quanto degli animali e di sgomento per gli israeliti che per la prima volta, dopo quattrocentotrent’anni anni di servitù, sperimentavano la potenza del Dio dei loro Padri.  La Pasqua ebraica è il  ricordo  di una notte trascorsa nella veglia, perché in quella «notte» nasceva il popolo del Signore. Le prescrizioni per celebrare la Pasqua non hanno altra finalità che quella di conservare il ricordo di quella notte di veglia. E, in verità, la natura della festa di Pasqua è assai efficacemente caratterizzata da questo suo essere “memoriale” (cfr. 12,14):  un ricordo da tramandare di padre in figlio. La Pasqua è infatti essenzialmente una memoria, che, malgrado la tipica debolezza delle memorie umane, “di generazione in generazione” (cfr.12,14), conserva desta e attuale la certezza di essere amati da Dio. Perciò, quando “i vostri figli vi chiederanno: “Che significa questo atto di culto?”, voi direte loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre (letteralmente: “ha saltato”) le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case“» (12,26s.). Da quella notte il popolo d’Israele, privo di qualunque consistenza esteriore, vivrà aggrappato al fragilissimo appoggio di un semplice ricordo; eppure, proprio da quella notte, la presenza d’Israele nella storia umana acquisterà tutta la potenza che compete ai testimoni dell’amore di Dio. Affidato alla consapevolezza di una misericordia eterna, con cui il Signore ha benedetto una volta per tutte il suo popolo, Israele che continuerà a esistere soltanto per conservare, di generazione in generazione, la memoria di tale misericordia.

La festa di Pasqua: l’urgenza della libertà

La festa di Pasqua è la festa della libertà. Non ci si può dimenticare, infatti, che nella notte in cui vengono mangiati gli agnelli Israele è ufficialmente ancora un popolo di schiavi; ma è proprio in quella notte che il popolo di Dio comincia a prendere consapevolezza della sua identità. La distinzione dei primogeniti, è resa pubblica ed esplicita mediante il segno che ogni capofamiglia traccia con il sangue dell’agnello “sui due stipiti e sull’architrave» della porta di casa” (cfr. 12,7.22). Con questo gesto gli Israeliti si dichiarano ufficialmente un popolo di gente libera: gente che non si aspetta di ricevere in regalo la propria libertà da nessun potente di questo mondo, ma che se la prende da sé, perché non accetta altra sovranità che quella del Signore. È così che quando, quella notte, ancora prima di uscire dall’Egitto, gli Israeliti levano la testa e si dichiarano con coraggio per quel che sono, esponendosi a tutte le rappresaglie dei soldati egiziani, essi sono già intimamente e sostanzialmente liberati!

Tutti sappiamo come, nel corso della storia, molte volte il popolo d’Israele si sia trovato in condizioni difficili, fino a subire spesso una dura condanna all’emarginazione o alla schiavitù. Ma sempre la festa di Pasqua ha dato coraggio alle comunità ebraiche, facendo loro rivivere l’esperienza autentica di un’indomabile libertà, che brilla anche nella notte cupa della più penosa persecuzione. Con la festa di Pasqua si annuncia che la grande attesa è ormai conclusa: Dio viene a liberarci. Tutto è avvenuto talmente in fretta che non si è potuto lasciar lievitare il pane nei forni! Da allora, ogni anno (cfr. 12,15-20; 13,3- 10) la festa degli Azzimi suscita nel popolo di Dio un sentimento di frettolosa imminenza: il tempo è ormai compiuto, il Signore viene, e ogni nostra urgenza di libertà  troverà finalmente lo sbocco a cui ci ha orientati la speranza di poter vedere «un nuovo cielo e una nuova terra» (Ap 21,1).

Struttura della festa di Pesach

Inizia il 15 del mese ebraico di Nissàn, nella stagione nella quale, in terra d’Israele, maturano i primi cereali; segna quindi l’inizio del raccolto dei principali prodotti agricoli. E’ anche nota col nome Hag hamatzot, festa delle azzime. In terra d’Israele, Pesach dura sette giorni dei quali il primo e l’ultimo di festa solenne, gli altri di mezza festa. Fuori d’Israele – nella Diaspora – la durata di Pesach è di otto giorni, dei quali i primi e gli ultimi due sono di festa solenne. In ricordo del fatto che quando furono liberati dalla schiavitù gli Ebrei lasciarono l’Egitto tanto in fretta da non avere il tempo di far lievitare il pane, per tutta la durata della ricorrenza è assolutamente vietato cibarsi di qualsiasi alimento lievitato o anche solo di possederlo. Si deve invece far uso di matzà, il pane azzimo, un pane non lievitato e scondito, che è anche un simbolo della durezza della schiavitù.

I giorni precedenti la festa di Pesach sono dedicati a una scrupolosa e radicale pulizia di ogni più riposto angolo della casa per eliminare anche i piccoli residui di sostanze lievitate. Usanza mutuata anche dalla lingua italiana nella quale ricorre spesso l’espressione “pulizie di Pasqua” – sinonimo anche delle “pulizie di primavera”.

La prima sera viene celebrato il Seder, in ebraico “ordine”, suggestiva cena nel corso della quale vengono rievocate e discusse secondo un ordine prestabilito le fasi dell’Esodo, rileggendo l’antico testo della Haggadah. Si consumano vino, azzime ed erba amara in ricordo dei dolori e delle gioie degli Ebrei liberati dalla schiavitù. Si inizia con l’invito ai bisognosi ad entrare e a partecipare alla cena e si prosegue con le tradizionali domande rivolte al padre di famiglia dal più piccolo dei commensali; la prima di queste è volta a sapere “in che cosa si distingue questa notte dalle altre?”. Tali quesiti consentono a tutti i presenti di spiegare, commentare, analizzare i significati dell’esodo e della miracolosa liberazione dall’Egitto, le implicazioni di ogni schiavitù e di ogni redenzione.

I simboli della festa, la scrupolosa pulizia che la precede, il pane azzimo vale a dire il “misero pane che i nostri padri mangiarono” – il Seder, la lettura della Haggadah, fanno sì che ben pochi bambini arrivino all’adolescenza senza conoscere la storia dell’uscita dell’Egitto e senza avvertire che questa è una parte essenziale della loro storia. La matzà, il duro alimento che sostituisce il morbido e saporito pane di tutti i giorni, sta anche ad indicare il contrasto tra l’opulenza dell’antico Egitto, l’oppressore, e le miserie di chi, schiavo, si accinge a ritrovare appieno la propria identità. Può anche ricordare che la libertà è un duro pane, così come l’eliminazione dei lieviti può rappresentare la necessità di liberarsi dalla corruzione della vita servile e anche dalle passioni che covano nell’intimo dell’animo umano.

La Pasqua di Gesù ha avuto luogo durante Pesach

I racconti evangelici collocano la morte e la risurrezione di Gesù in un contesto pasquale. Ci sono due cronologie contrapposte, ma quella che regge storicamente (quella del vangelo di Giovanni) colloca la condanna di Gesù alla vigilia del Seder di Pesach. A quel tempo, questo giorno corrispondeva a quello del sacrificio degli agnelli il cui sangue veniva poi apposto sulle porte delle case, in ricordo del gesto che protesse i primogeniti ebrei dalla morte quando l’ultima delle dieci piaghe si abbatté sull’Egitto.

Così i Vangeli dicono che Gesù visse il Seder pasquale. Ed alla luce di questa festa è possibile comprendere che in Cristo l’antica alleanza, l’antico passaggio dalla schiavitù alla libertà è sigillato nell’Eucarestia. La Pasqua ebraica, attraverso il suo rito commemorativo in 14 momenti attorno a un tavolo dove si ritrovano vari elementi con una precisa simbologia, attualizza l’uscita dall’Egitto, che nella Santa Messa, sono portati a compimento.

In ebraico Pesach significa «passaggio», in riferimento al fatto che l’angelo della morte passò sulle case dei figli di Israele, risparmiando il loro primogenito, ma anche in riferimento al passaggio dalla schiavitù alla libertà. Si ritrova questo simbolismo nella festa cristiana. «La risurrezione è il passaggio dalla morte alla vita – osserva Sylvaine Lacout, direttrice del Centro cristiano per gli Studi ebraici di Parigi –. Il suo aspetto è duplice: con la sua morte Gesù Cristo ci libera dal peccato e con la sua risurrezione ci apre a una nuova vita, così come il popolo di Israele ha iniziato una nuova vita fuggendo dall’Egitto». Il rito dei cristiani ortodossi rappresenta bene in modo concreto questo “passaggio” del giorno di Pasqua con la suggestiva cerimonia del Fuoco santo alla basilica del Santo Sepolcro, che incarna il passaggio dalle tenebre alla luce.

Conclusioni

La storia di questi ultimi mesi che ha alterato i rapprti già fragili tra popoli fratelli, vede la festa di Pesach come un momento per ritornare al Dio che ha chiamato Mosè per liberare dalla schiavitù il popolo oppresso dalla schiavitù. La libertà è una storia dolorosa, fatta di tradimenti, fughe all’indietro, compromessi continui con la paura: lo spettro della sfiducia in Dio si agita sempre come violenza. Per questo la festa di Pesach, ci accompagna ad affinare il desiderio, a puntare tutto sulla fedeltà di quel Dio che non ha mai tradito e non tradirà mai. Sul monte in cui Dio non ha permesso che Abramo stendesse la mano contro suo figlio Isacco, possa indicare la strada della fiducia in Dio piuttosto che nei fallimentari progetti umani. La religione strumentalizzata dalla politica e la politica strumentalizzata dalla religione, e dall’industria delle armi – come più volte ha denunciato Papa Francesco-, apre scenari di morte, e nel mondo ritorna la tragedia della prima sfiducia, che diventa aggressione e violenza del fratello contro il fratello.  Nella Torah, Dio ricorda continuamente al popolo di “Non temere”. Non temete, ci rasscura l’Altissimo, perché io ho già vinto sul peccato e sulla morte. Ecco perché siamo pronti, in questo “passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà”, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese. Sappiamo che il Signore può tornare da un momento all’altro e per tanti nostri fratelli non solo ebrei ma anche cristiani e musulmani quest’anno è stato così. In questa Pesach, dove l’oscurità è vinta per sempre, anche se crolla la terra e si sciolgono i monti, non temiamo. Fratelli ed amici ebrei: חג פסחא שמח

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.

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