L’evangelista Marco, in questa XIV domenica del Tempo Ordinario,  presenta un testo da cui è tratto il celebre detto “Nemo propheta in patria”, cioè nessun profeta è bene accetto tra la sua gente. In effetti, dopo che Gesù, a circa trent’anni, aveva lasciato Nazareth e già da un po’ di tempo era andato predicando e operando guarigioni altrove, ritornò una volta al suo paese e si mise ad insegnare nella sinagoga. I suoi concittadini “rimanevano stupiti” per la sua sapienza e, conoscendolo come il “figlio di Maria”, il “falegname” vissuto in mezzo a loro, invece di accoglierlo con fede si scandalizzavano di Lui (cfr Mc 6,2-3). Questo fatto è comprensibile, perché la familiarità sul piano umano rende difficile andare al di là e aprirsi alla dimensione divina. Che questo Figlio di un falegname sia Figlio di Dio è difficile crederlo per loro. Gesù stesso porta come esempio l’esperienza dei profeti d’Israele, i quali proprio nella loro patria erano stati oggetto di disprezzo, e si identifica con essi. A causa di questa chiusura spirituale, il Maestro, non poté compiere a Nazareth “nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. Infatti, i miracoli di Cristo non sono una esibizione di potenza, ma segni dell’amore di Dio, che si attua là dove incontra la fede dell’uomo nella reciprocità. Scrive Origene: “Allo stesso modo che per i corpi esiste un’attrazione naturale da parte di alcuni verso altri, come del magnete verso il ferro.. così tale fede esercita un’attrazione sulla potenza divina”.

Dunque, sembra che il Signore si è fatto una ragione della cattiva accoglienza che incontra a Nazareth. Invece, alla fine del racconto, troviamo un’osservazione che dice proprio il contrario. Scrive Marco che il Signore “si meravigliava della loro incredulità”. Allo stupore dei concittadini, che si scandalizzano, corrisponde la meraviglia di Gesù. Malgrado sappia che nessun profeta è bene accetto in patria, tuttavia la chiusura del cuore della sua gente rimane per Lui oscura, impenetrabile: come è possibile che non riconoscano la luce della Verità? Perché non si aprono alla bontà di Dio, che ha voluto condividere la forma dell’uomo? La solitudine del profeta è spesso drammatica; egli è frequentemente oggetto di scandalo e di disprezzo. “Me infelice! Madre mia che mi hai partorito oggetto di litigio e di contrasto in tutto il paese” [ אֽוֹי־לִ֣י אִמִּ֔י כִּ֣י יְלִדְתִּ֗נִי אִ֥ישׁ רִ֛יב וְאִ֥ישׁ מָד֖וֹן לְכָל־הָאָ֑רֶץ לֹֽא־נָשִׁ֥יתִי וְלֹא־נָֽשׁוּ־בִ֖י כֻּלֹּ֥ה מְקַלְלַֽונִי]  (Geremia 15, 10).

Esemplare è anche la testimonianza di Ezechiele di cui oggi leggiamo un brano tratto dalla seconda relazione della sua chiamata profetica, svela il destino sconcertante del chiamato. Egli sarà “martire” nel senso doppio che ha questo termine di origine greca da noi usato nel senso di “testimone e vittima”. Su questo identikit dei profeti, servi e testimoni di Dio in mezzo al popolo, non possiamo non ricordare Padre Pino Puglisi, di cui in questi giorni celebriamo l’anniversario della sua ordinazione sacerdotale. 3P, è stato un profeta che ha ammonito, testimoniato, amato, cercando ad ogni costo di salvare il popolo dal regno della morte e dalle grinfie dell’antico nemico. Ha sperimentato nella sua vita la solitudine umana, ma non quella divina a cui si è aggrappato fino all’ultimo istante della vita. La tragica morte del Beato Puglisi, ha sprigionato verso il cielo quel profumo soave come l’incenso, commuovendo così il cuore di Dio che non gradisce sacrifici e olocausti, ma comunione con Lui. Così la sua esistenza si è conclusa con il martirio, suggellato da quel sorriso che porterà in seguito il suo sicario a pentirsi.

Certamente in questo tempo travagliato, non possiamo dimenticare i tanti cristiani, sacerdoti e semplici fedeli, che esercitando il loro carisma profetico, sono rimasti in mezzo al popolo per gridare senza sosta la Verità di Dio e la conversione del cuore. Tra tutti, mi piace ricordare Don Ragheed Ganni, sacerdote iracheno della piana di Ninive, il quale ha affrontato con decisione i suoi persecutori che volevano chiudere la Chiesa e metterlo a tacere. Il capo dei terroristi si rivolse a lui prima di sparare, dicendogli: [«قلت لك أن تغلق الكنيسة، لماذا لم تفعل ؟»]  “Ti avevo detto di chiudere la chiesa, perché non l’hai fatto?” Padre Ganni rispose: [«لا أستطيع إغلاق بيت الله».] “Non posso chiudere la casa di Dio”. E ancora, Padre Hovsep Bedoyan, sacerdote armeno cattolico, parroco di Qamishli e Hasakeh in Siria, martirizzato insieme a suo padre Abraham in un agguato di sicari-terroristi a volto coperto, mentre era in viaggio in auto da Hasakeh a Dayr az Zor, sulla strada che collega la regione a Qamishli. La vita e il martirio di Padre Hovsep, mi ha ricordato l’immagine che il profeta Isaia, riconduce al servo sofferente di Jhavè: “(egli) maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”. Quanto coraggio profetico ed evangelico; quando desiderio di testimoniare il Signore che diventa gioia di sapere che Lui è il nostro unico bene, anche più della vita!

Solitudine e ostilità circondano anche Gesù mentre visita il suo villaggio natale: Nazaret. Divenuto ormai famoso per la sua parola e per i suoi miracoli, il Cristo si presenta ora anche a questo ambiente piccolo e gretto. I nazaretani sentono le parole che pronunzia nella sinagoga ove tutto il villaggio è radunato per la celebrazione dello Shabat (שבת). Sono parole che stupiscono, sconvolgono, provocano come solo sa fare un vero profeta.

In effetti, l’uomo Gesù di Nazareth è la trasparenza di Dio. In Lui Dio abita pienamente. E mentre noi cerchiamo sempre altri segni, altri prodigi, non ci accorgiamo che il vero Segno è Lui, Dio fatto carne, è Lui il più grande miracolo dell’universo: tutto l’amore di Dio racchiuso in un cuore umano, in un volto d’uomo. Questa ò la logica del Dio rifiutato che si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. Il Messia, respinto continua ad amare, anche senza ritorno. Noi sappiamo amare senza ritorno? Oppure attendiamo sempre il riconoscimento per il bene compiuto? Nonostante tutto, Dio di noi non è stanco: è solo stupito! Concludiamo questa riflessione con le parole di David Maria Turoldo: “Signore, manda ancora profeti, uomini certi di Dio, uomini dal cuore in fiamme, e Tu a parlare dai loro roveti“.

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.

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