La Liturgia della Parola di questo XIX Domenica del Tempo Ordinario, si apre con Elia, il grande profeta del IX secolo avanti Cristo, costretto alla fuga dalla persecuzione della regina Gezabela, desiderosa di introdurre anche in Israele il culto delle sue origini, quello fenicio del dio Baal. La fuga di Elia si trasforma in un pellegrinaggio alle sorgenti spirituali del popolo eletto, cioè il deserto e il “monte di Dio”, il Sinai. Il vuoto della steppa desolata che si allarga anceh enl cuore del profeta che sente ramificarsi nella coscienza la disperazione è la crisi della vocazione che raggiunge il vertice nel panico e nel desiderio di morte.

Ma il cielo si squarcia ed ecco il pane dei nomadi, cotto su lastre di peitra roventi, deposto accanto al profeta scoraggiato: è un angelo di Dio che lo offre all’uomo desolato  perché riprenda forza nel cammino della vita. Ed Elia è riportato dalla mano di Dio sulel strade della sua vocazione e il Sinai, il lugo natale dell’Israele di Dio, diverrà anche la sede della chiamata del nuovo profeta. 

In questa prosettiva, la “crisi” che si intravede  nel racconto evangelico, è espressa attraverso un’altra immagine, formulata con il verbo “mormorare” che è il verbo tipico dell’incredulità di Israele nel deserto durante l’esodo. Dunque, la lettura del 6° capitolo del Vangelo di Giovanni nelle scorse domeniche, ci ha condotti a riflettere sulla moltiplicazione del pane, con il quale il Signore ha sfamato una folla di cinquemila uomini, e sull’invito che Gesù rivolge a quanti aveva saziato di darsi da fare per un cibo che rimane per la vita eterna. Gesù vuole aiutarli a comprendere il significato profondo del prodigio che ha operato: nel saziare in modo miracoloso la loro fame fisica, li dispone ad accogliere l’annuncio che Egli è il pane disceso dal cielo (Gv 6,41), che sazia in modo definitivo. 

Il pane disceso dal cielo, e portato dall’angelo aveva sottratto solo temporeanamente Elia alla morte. Il “pane vivo disceso dal cielo” offero dal Cristo fa sì che “se uno lo mangia, vivrà in eterno”. Anche il popolo ebraico, durante il lungo cammino nel deserto, aveva sperimentato un pane disceso dal cielo, la manna, che lo aveva mantenuto in vita, fino all’arrivo nella terra promessa. Ora, Gesù parla di sé come del vero pane disceso dal cielo, capace di mantenere in vita non per un momento o per un tratto di cammino, ma per sempre. Lui è il cibo che dà la vita eterna, perché è il Figlio unigenito di Dio, che sta nel seno del Padre, venuto per dare all’uomo la vita in pienezza, per introdurre l’uomo nella stessa vita di Dio.

Nel pensiero ebraico era chiaro che il vero pane del cielo, che nutriva Israele, era la Legge, la parola di Dio. Il popolo di Israele riconosceva con chiarezza che la Torah era il dono fondamentale e duraturo di Mosè e che l’elemento basilare che lo distingueva rispetto agli altri popoli consisteva nel conoscere la volontà di Dio e dunque la giusta via della vita. Ora Gesù, nel manifestarsi come il pane del cielo, testimonia di essere Lui la Parola di Dio in Persona, la Parola incarnata, attraverso cui l’uomo può fare della volontà di Dio il suo cibo (Gv 4,34), che orienta e sostiene l’esistenza.

Dubitare allora della divinità di Gesù, come fanno i Giudei del passo evangelico di oggi, significa opporsi all’opera di Dio. Essi infatti, affermano: è il figlio di Giuseppe! Di lui conosciamo il padre e la madre! (Gv 6,42). Essi non vanno oltre le sue origini terrene, e per questo si rifiutano di accoglierLo come la Parola di Dio fattasi carne. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, spiega così: «erano lontani da quel pane celeste, ed erano incapaci di sentirne la fame. Avevano la bocca del cuore malata… Infatti, questo pane richiede la fame dell’uomo interiore» (26,1). 

E dobbiamo chiederci se noi realmente sentiamo questa fame, la fame della Parola di Dio, la fame di conoscere il vero senso della vita. Solo chi è attirato da Dio Padre, chi Lo ascolta e si lascia istruire da Lui può credere in Gesù, incontrarLo e nutrirsi di Lui e così trovare la vera vita, la strada della vita, la giustizia, la verità, l’amore. 

Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei Vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret. Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita. Io sono cielo che discende sulla terra. Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro. Nella sinagoga si alza la contestazione: ma quale pane e quale cielo! Sappiamo tutto di te e della tua famiglia…

E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi. Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo. E aggiunge una frase bellissima: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione. 

Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio.

Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura. Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita. Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola “vita”, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio. Ma non dice il mio “corpo”,bensì la mia “carne”. Nel Vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne. Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere. Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone. Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.