Da un lato la mancanza di un numero sufficiente di presbiteri, dall’altro la necessità di rivedere alcuni modelli organizzativi per stare al passo di una società, come quella di oggi, in frenetica evoluzione. La parrocchia, così come l’abbiamo vissuta negli ultimi decenni, si ritrova a dover fare i conti con problemi non indifferenti che richiedono un cambiamento profondo.

E’ questo il tema della prima puntata di “Proposte alla Chiesa di Palermo”, la nuova rubrica di Portadiservizio dedicata a idee e contributi offerti alla riflessione sull’oggi e il domani della nostra arcidiocesi.

Parrocchie “parrococentriche”

Le parrocchie di oggi sono ancora incentrate quasi esclusivamente sul parroco che, nel bene e nel male, rimane l’epicentro decisionale e organizzativo. E’ il parroco a guidare la comunità, a rappresentarla legalmente, a doversi fare carico di ogni incombenza amministrativa (dalle bollette ai problemi strutturali), a gestirne la cassa, a decidere programmi pastorali, responsabili dei gruppi, incarichi e ruoli.

Un parroco ha, nei fatti, un potere decisionale assoluto sia sulle grandi questioni che sulle più piccole, fosse anche scegliere che tipo di canti eseguire durante una celebrazione. Con il risultato che il carico di responsabilità a volte diventa pesante, se non insostenibile, come dimostrano i sempre più frequenti casi di burnout anche tra i sacerdoti.

Accentrare tutto su un’unica figura rende le decisioni più veloci e le procedure più snelle ma, bisogna ammetterlo, nulla ha a che fare con lo spirito sinodale che la Chiesa vorrebbe adottare a ogni livello.

Un modello che cambia

In più, i presbiteri di oggi si ritrovano spesso con una molteplicità di incarichi: hanno la responsabilità di più parrocchie o hanno ruoli diocesani che rendono complicata una presenza costante.

L’idea di una volta, delle chiese sempre aperte con all’interno un prete a disposizione con cui confessarsi o anche solo scambiare quattro chiacchiere, stride con la situazione attuale. Tenere aperte le parrocchie, mattina e pomeriggio, è complicato se non ci sono laici volenterosi; garantire i corsi di preparazione alla prima comunione, alla cresima o al matrimonio non è semplice, senza l’apporto degli operatori pastorali. Non parliamo della cura pastorale degli infermi che difficilmente potrebbe fare a meno dei ministri straordinari.

E’ chiaro, quindi, che bisogna abbandonare il modello “parrococentrico” che abbiamo vissuto finora e che è diventato insostenibile. Non si può, però, nemmeno trasformare le parrocchie in comunità senza alcuna guida, lasciate a una forma di conduzione orizzontale che non funzionerebbe.

La parrocchia è indispensabile

Sia chiaro: le nostre diocesi non possono fare a meno delle parrocchie che sono, e rimangono, la spina dorsale delle Chiese locali. E non è solo una questione organizzativa o giuridica, perché le parrocchie non vanno considerate dei “distributori di sacramenti”.

Una parrocchia, a differenza di qualsiasi altro gruppo ecclesiale o di preghiera, è una realtà insostituibile perché mette insieme uomini e donne differenti fra loro, con sensibilità diverse e vissuti ben distinti ma che, mossi dall’amore di Dio, si “sforzano” di stare insieme e coabitare un medesimo spazio umano.

I componenti di una comunità parrocchiale non dipendono (o non dovrebbero dipendere) dal parroco di turno, non stanno insieme perché membri del medesimo gruppo di preghiera o perché seguono lo stesso percorso.

A volte, in una parrocchia, ci sono differenze profonde che però riescono a coesistere spingendo i componenti al confronto, educandoli alla diversità, al rispetto e all’amore del prossimo, inserendoli in un contesto più ampio in cui si creano relazioni, in cui si impara a stare insieme, a prendersi cura l’uno dell’altro meglio che in realtà più piccole.

Qualche proposta

Quale può essere, allora, la soluzione? Probabilmente non ce n’è una preconfezionata, ma alcuni accorgimenti potrebbero essere utili.

I parroci dovrebbero fare i parroci, occupandosi di quelle cose che non possono essere delegate: la celebrazione dei sacramenti, confessioni in primis, la cura spirituale dei fedeli e in particolare degli ammalati, le scelte fondanti per una comunità.

Significherebbe sgravare i presbiteri dalle incombenze più amministrative che dovrebbero essere gestite in parte dagli organismi diocesani (che darebbero così indirizzi e indicazioni omogenei) e in parte dai laici della parrocchia.

E sui laici bisogna essere chiari: le parrocchie non possono diventare comunità autogestite, è bene che la responsabilità rimanga in capo a un parroco che è delegato dal vescovo, senza che questo si trasformi in conduzioni solitarie (e non sempre felici) che finiscono con l’allontanare i fedeli che, a differenza dei presbiteri, nelle comunità restano a volte per tutta la vita.

Un laicato adulto

Bisogna affidare ai laici compiti e ruoli nell’amministrazione ordinaria o nella realizzazione delle attività pastorali ma i laici non possono essere scelti solo sulla base del fatto che siano disponibili a impiegare il proprio tempo in parrocchia o che siano accondiscendenti col parroco, non possono essere solo giovani, casalinghe e pensionati.

I laici a cui demandare ruoli e compiti, in una comunità, devono essere formati in modo adeguato e continuo, avere un vissuto di fede alle spalle, dimostrare maturità umana e cristiana e questo implica un grande impegno da parte della Chiesa, oltre a un efficace discernimento.

Serve allora un maggiore coinvolgimento dei laici, una corresponsabilità che non si trasformi in confusione, che si concretizzi in organismi, come i consigli pastorali, realmente operativi e incisivi, sempre sotto la guida di un parroco.

Unire le forze

Utile sarebbe anche una maggiore cooperazione tra parrocchie vicine, appartenenti alla stessa zona pastorale: che senso ha tenere tre o quattro corsi prematrimoniali con pochi partecipanti ciascuno, nell’ambito dello stesso quartiere?

Meglio unire le forze e impiegarle in modo produttivo, puntando più sulla qualità che sulla quantità. E questo vale anche per le attività dedicati ai giovani, alle famiglie, alla Caritas. Il che implica, però, che vicariati e zone pastorali siano strutture concretamente funzionanti e non semplici ripartizioni organizzative, in cui tutte le parrocchie siano coinvolte a prescindere dall’orientamento del singolo parroco.

Basterebbero questi accorgimenti a evitare lo svuotamento delle parrocchie? No, da soli ovviamente no, ma concorrerebbero a gettare le basi per attività pastorali pensate e realizzate meglio, a rendere le comunità più vive e partecipate, a facilitare la gestione delle incombenze, a canalizzare e impiegare meglio le energie a disposizione.

Per approfondire

Proposte alla Chiesa di Palermo/4, la procreazione assistita

Proposte alla Chiesa di Palermo/3: la pastorale familiare

Proposte alla Chiesa di Palermo/2: la pastorale giovanile

Proposte alla Chiesa di Palermo, un contributo di idee

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Di Roberto Immesi

Giornalista, collabora con Live Sicilia, è Revisore dei Conti dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e Membro dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (UCSI), sezione di Palermo.