La Liturgia della Parola ci ha presentato nella prima lettura, il primo discorso di Mosè, che rievoca l’alleanza del popolo con Dio sull’Oreb, richiamando, in particolare, la necessità che Israele obbedisca alla voce del Signore, rinunciando a costruirsi altre divinità. Nei versetti appena proclamati ed ascoltati la Legge di Dio, la Torah, è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. Essa come canta il più lungo dei salmi, il 119 tutto dedicato alla Parola di Dio che è “lampada per i miei passi, è luce sul mio cammino”.

Osservando liberamente questa parola, il credente scopre la presenza di Dio Salvatore. Il Signore infatti non è tanto da cercare. Nei cieli lontani ma nella legge che egli ha offerto al popolo. L’adesione “alle leggi e alle norme che egli insegna” è allora la scoperta della vicinanza di Dio proprio nel cuore dell’esistenza umana. Splendida è la domanda finale del brano: “quale nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi?”.

Tuttavia, nella vicinanza di Dio al popolo, che si esprime attraverso il culto, si annida un rischio, una specie di punta velenosa che può infettare l’atto religioso: la purità si può trasformare in puritanesimo, la santità in sacralismo magico, l’atto liturgico in gesto esteriore; la religione può distaccarsi dalla vita quotidiana, la fede dalla giustizia, il culto dall’esistenza; la preoccupazione del rito perfettamente celebrato può sostituirsi all’impegno interiore della coscienza. E’ ciò che i profeti avevano ripetutamente insegnato con accenti spesso veementi, giungendo al punto di ricusare totalmente questi atti vuoti, che non sortiscono nessun effetto nel cuore di Dio.

Il Signore, nel Vangelo di questa Domenica, si rivolge contro una certa prassi giuridica tutta centrata sull’osservanza legalistica come fonte decisiva di salvezza. Gesù, affronta un tema importante per tutti noi credenti: l’autenticità della nostra obbedienza alla Parola di Dio, contro ogni contaminazione mondana o formalismo legalistico. Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni.

In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù replica forte e replica dicendo: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”» (vv. 6-7). Così dice Gesù. Parole chiare e forti! Ipocrita è uno degli aggettivi più forti che Gesù usa nel Vangelo e lo pronuncia rivolgendosi ai maestri della religione: dottori della legge, scribi… “Ipocrita”, dice Gesù.

Il Maestro, infatti, vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti. Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane. La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico. Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo.

“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita.

Per concludere, dobbiamo, invece, accogliere la Parola con mente e cuore aperti, come un terreno buono, in modo che sia assimilata e porti frutto nella vita concreta. Gesù dice che la Parola di Dio è come il grano, è un seme che deve crescere nelle opere concrete. Così la Parola stessa ci purifica il cuore e le azioni e il nostro rapporto con Dio e con gli altri viene liberato dall’ipocrisia.

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.