Come è noto, gli studiosi hanno chiamato “secondo Isaia” un profeta anonimo la cui opera è entrata negli scritti di Isaia il grande profeta vissuto nell’VIII secolo (a.C.). L’autore ignoto, invece, è stato il cantore del ritorno di Israele dalla schiavitù babilonese in seguito all’editto di Ciro del 538 (a.C.). Questo rimpatrio per la ricostruzione del focolare nazionale nella terra dei Padri, abbandonata con la distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi, è celebrato dal profeta nella prima lettera dell’odierna liturgia con una doppia fila di immagini antitetiche.

Da un lato si incontrano simboli tratti dalla natura: all’aridità del deserto, alla steppa riarsa, alla terra bruciata si oppongono le acque, i torrenti, le paludi e le sorgenti gorgoglianti. In seguito prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone il corpo risanato, dotato ormai di occhi penetranti, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti, di labbra che esplodono in canti di gioia. La via verso la libertà è fresca e luminosa, è come un viaggio in un giardino paradisiaco; la rinascita del popolo è come la resurrezione di un corpo malato e moribondo. La frase di Isaia: “si schiuderanno gli orecchi dei sordi e griderà di gioia la lingua del muto” è riletta da Marco come l’annunzio di un atto che ora il Cristo sta compiendo, segno di una nuova e radicale liberazione. E’ significativo notare, tra l’altro, che Gesù, si trova ora in un territorio a prevalenza pagana, la cosiddetta Decapoli.

Dunque, riassumendo quanto commentato sulla profezia di Isaia, al centro del Vangelo di oggi (Mc 7,31-37) c’è una piccola parola, molto importante. Una parola che – nel suo senso profondo – riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. L’evangelista Marco la riporta nella lingua stessa di Gesù, in cui il Maestro la pronunciò, così che la sentiamo ancora più viva.

Questa parola è «effatà», che significa: «apriti». Vediamo il contesto in cui è collocata. Gesù stava attraversando la regione detta “Decapoli”, tra il litorale di Tiro e Sidone e la Galilea; una zona dunque non giudaica. Gli portarono un uomo sordomuto, perché lo guarisse – evidentemente la fama di Gesù si era diffusa fin là. Gesù lo prese in disparte, gli toccò le orecchie e la lingua e poi, guardando verso il cielo, con un profondo sospiro disse: «Effatà», che significa appunto: “Apriti”. E subito quell’uomo incominciò a udire e a parlare speditamente (cfr. Mc 7,35).

Ecco allora il significato storico, letterale di questa parola: quel sordomuto, grazie all’intervento di Gesù, “si aprì”; prima era chiuso, isolato, per lui era molto difficile comunicare; la guarigione fu per lui un’”apertura” agli altri e al mondo, un’apertura che, partendo dagli organi dell’udito e della parola, coinvolgeva tutta la sua persona e la sua vita: finalmente poteva comunicare e quindi relazionarsi in modo nuovo.

Ma tutti sappiamo che la chiusura dell’uomo, il suo isolamento, non dipende solo dagli organi di senso. C’è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il “cuore”.

E’ questo che Gesù è venuto ad “aprire”, a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Ecco perché dicevo che questa piccola parola, “effatà – apriti”, riassume in sé tutta la missione di Cristo. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, a comunicare con Dio e con gli altri.

Per questo motivo la parola e il gesto dell’«effatà» sono stati inseriti nel Rito del Battesimo, come uno dei segni che ne spiegano il significato: il sacerdote, toccando la bocca e le orecchie del neo-battezzato dice: «Effatà», pregando che possa presto ascoltare la Parola di Dio e professare la fede. Mediante il Battesimo, la persona umana inizia, per così dire, a ”respirare” lo Spirito Santo, quello che Gesù aveva invocato dal Padre con quel profondo sospiro, per guarire il sordomuto.

Il commento alla Liturgia della Parola di questa XXIII Domenica del Tempo Ordinario, a cura di don Salvatore Lazzara, è stato rielaborato dagli Angelus di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco, e da alcune riflessioni sul Vangelo della Domenica del Cardinale Gianfranco Ravasi.

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.