Nel brano evangelico di oggi (Mc 8, 27-35), ritorna la domanda che attraversa tutto il Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ma questa volta è Gesù stesso che la pone ai discepoli, aiutandoli gradualmente ad affrontare l’interrogativo sulla sua identità. Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, il Signore vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: “La gente, chi dice che io sia?” (v. 27). Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente. La fede in Gesù Cristo, non è “vera”, perché i social media ne confermano l’identità. Ci sarebbe da riflettere molto sul rapporto della Verità, con le opinioni o con le verità che i vari influencer propagandano nelle loro pagine. Il Maestro, non accetta nemmeno che i suoi discepoli rispondano alle sue domande con formule preconfezionate, citando personaggi famosi della Sacra Scrittura, perché una fede che si riduce alle formule è una fede miope. Ed è quello che fa abitualmente il “marketing”, per poter vendere al maggior numero di consumatori il proprio prodotto. Sappiamo però, che il Signore, non è uno slogan, e nemmeno il risultato di successo di una campagna pubblicitaria. Lui è il Figlio di Dio, mandato nel mondo per salvare l’umanità dalla morte e dalle tenebre del peccato.

Il Signore vuole che i suoi discepoli di ieri e di oggi instaurino con Lui una relazione personale, e così lo accolgano al centro della loro vita. Per questo li sprona a porsi in tutta verità di fronte a sé stessi, e chiede: “Ma voi, chi dite che io sia?” (v. 29). Gesù, oggi, rivolge questa richiesta così diretta e confidenziale a ciascuno di noi: “Tu, chi dici che io sia? Voi, chi dite che io sia? Chi sono io per te?”. Ognuno è chiamato a rispondere, nel proprio cuore, lasciandosi illuminare dalla luce che il Padre ci dà per conoscere il suo Figlio Gesù. E può accadere anche a noi, come a Pietro, di affermare con entusiasmo: “Tu sei il Cristo”.

Quando però Gesù ci dice chiaramente quello che disse ai discepoli, cioè che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare e ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane. In quei momenti, anche noi meritiamo il salutare rimprovero di Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (v. 33). Attorno a questa decisiva precisazione di Gesù si addensa un’altra massa di nubi. Essa avvolge Pietro, che non si rassegna ad una religione della povertà, del silenzio e della morte, a un Dio “debole”, e non trionfale e regale. 

Dunque, il Figlio dell’uomo, non sarà il Messia trionfante, regale e glorioso, di una certa tradizione biblica e giudaica, particolarmente viva in quegli anni in cui il peso dell’occupazione romana faceva nascere scintille nazionaliste e irredentiste. Gesù sarà il Messia sofferente e povero cantato dai celebri quattro carmi del Servo del Signore, di cui la Liturgia odierna ci suggerisce la lettura: “ho offerto il dorso ai flagellatori, la guancia a chi mi strappava la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Isaia 50,5.6).

La professione di fede in Gesù Cristo non può fermarsi alle parole, ma chiede di essere autenticata da scelte e gesti concreti, da una vita improntata all’amore di Dio, di una vita grande, di una vita con tanto amore per il prossimo. Gesù ci dice che per seguire Lui, per essere suoi discepoli, bisogna rinnegare sé stessi (cfr v. 34), cioè le pretese del proprio orgoglio egoistico, e prendere la propria croce. Poi dà a tutti una regola fondamentale. E qual è questa regola? “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà”.

Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità solo nelle cose, o nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto! E l’amore può cambiare anche noi, ognuno di noi, solo se abbandoniamo la religiosità comoda e retorica, per abbracciare “la strada stretta” della Croce.

Foto: Vocazione di Pietro – Caravaggio

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.