«Il Brasile mangia, dorme e beve calcio. Vive di calcio», diceva il più grande tra i calciatori del mondo, Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè. Ma forse erano altri tempi, si giocava in spiaggia con un pallone di pezza (talvolta un calzino o degli stracci riempiti con carta e legati con un laccio) e le azioni più belle nascevano nel cuore prima di essere partorite in campo! Non era il look a fare di te un campione, e se lo diventavi davvero le folle ti amavano perché insieme a te inseguivano il sogno della vittoria.
Ancora Pelè diceva che «il football è musica, danza e armonia. E non c’è niente di più allegro della sfera che rimbalza», e ancora: «Non c’è niente di più triste di un pallone sgonfio…».
La storia del calcio è cambiata, e ci sembra di capire che ad essere un po’ troppo “sgonfi”, oggi, sono i giocatori! Forse perché non si allenano più sulle spiagge, dove i sogni una volta diventavano realtà, e le grandi squadre a cui appartengono preferiscono “giocare” in borsa!
«Gli uomini – affermava un inedito Joseph Ratzinger negli anni ’80 a proposito di calcio – si identificano con il gioco e con i giocatori, e partecipano quindi personalmente all’affiatamento e alla rivalità, alla serietà e alla libertà: i giocatori diventano un simbolo della propria vita; il che si ripercuote a sua volta su di loro: essi sanno che gli uomini rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Naturalmente tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose». Mentre Giovanni Paolo II diceva che «lo sport vuol dire non solo forza fisica e grossi muscoli, ma è qualcosa che ha anche un’anima».
Il ricordo del grande Pelè non morirà mai, non solo per il suo imparagonabile talento ma per quella coerenza di vita che lo faceva essere un campione dentro e fuori i campi di calcio.
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