In Pakistan, ancora oggi, “non è lecito essere cristiani”, e la cronaca di questi giorni ne conferma la drammatica realtà. Croci divelte dai tetti – si legge nelle pagine del Sir (Servizio di Informazione Religiosa) –, bibbie e cimitero profanati, chiese bruciate, cristiani costretti a fuggire dalle proprie case, molestati e picchiati, oggetti di valore saccheggiati.
Tutto questo è accaduto lo scorso 16 agosto nello Stato del Punjab in Pakistan, in seguito ad una rivolta islamica di quasi seimila persone contro le minoranze cristiane presenti nel Paese.
A generare la sommossa sono stati alcuni volantini, con i nomi di alcuni cristiani protestanti, che pare abbiano offeso il Corano.
In Pakistan vige dal 1986 la legge sulla blasfemia, che punisce le offese contro i capisaldi della religione islamica. Secondo i dati raccolti dal Centro per la ricerca e gli studi sulla sicurezza (Crss), riportati dal Sir, dal 1947 al 2022 sono state uccise almeno 89 persone extragiudizialmente (71 uomini e 18 donne), 1.415 sono state le accuse di blasfemia (107 donne e 1.308 uomini). Tra questi, l’episodio più noto è quello di Asia Bibi, una contadina pakistana di fede cattolica, madre di cinque figli, condannata (dopo essere stata linciata e stuprata) alla pena di morte nel 2010 per blasfemia, e poi, dopo otto anni, nel 2018 assolta dalla Corte suprema grazie anche all’intervento della comunità internazionale.
Quella sulla blasfemia è una legge che porge il fianco a diverse strumentalizzazioni, e per la quale si era battuto Shahbaz Bhatti, ministro pakistano delle minoranze religiose, prima di essere ucciso crivellato con 30 colpi da un gruppo di estremisti pakistani il 2 marzo del 2011. Shahbaz Bhatti era un cattolico che aveva dedicato la propria vita alla lotta per l’uguaglianza umana, la giustizia sociale e la libertà religiosa, e quando diventò membro del governo pakistano si adoperò per la difesa delle minoranze religiose, promuovendo il dialogo interreligioso e un’apposita legge di riforma sulla blasfemia.
Le minacce di morte non tardarono a raggiungere il ministro cattolico, soprattutto dopo aver difeso i cristiani pachistani che avevano subito attacchi e violenze, prendendo anche posizione in difesa di Asia Bibi.
Shahbaz Bhatti diceva di voler servire Gesù da uomo comune, lontano da qualsiasi popolarità o posizione di potere, e poi – con sorprendente e profetica intuizione – affermava: «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».
A dodici anni dal suo feroce omicidio sono in tanti (cristiani, autorità musulmane, politici e gente comune) a considerarlo un martire. L’onestà e l’attenzione verso i più deboli e soprattutto il coraggio – sostenuto dalla fede cristiana – di andare oltre le intimidazioni, hanno rappresentato per Bhatti un vero e proprio programma di vita. Gli ostacoli burocratici messi in campo per fermarlo non sono serviti ad arginare il desiderio di verità incarnato nel proprio lavoro, vissuto come un importante compito istituzionale e morale.
Foto: uscirf.gov
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