“In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. …”. (Καὶ λέγει αὐτοῖς ἐν ἐκείνῃ τῇ ἡμέρᾳ ὀψίας γενομένης· Διέλθωμεν εἰς τὸ πέραν. καὶ ἀφέντες τὸν ὄχλον παραλαμβάνουσιν αὐτὸν ὡς ἦν ἐν τῷ πλοίῳ, καὶ ἄλλα ⸀πλοῖα ἦν μετ’ αὐτοῦ).
Era un giorno di primavera, già segnato da un cielo terso che volgeva al tramonto; il bacino del lago di Tiberiade, una specie di cratere posto a 212 metri sotto il livello del mare, rispecchiava le coste verdeggianti. All’improvviso cominciò a soffiare un vento impetuoso che sembrava marcare dalle alture del Golan e dalle invisibili vette del monte Hermon e del Libano; subito si vide avanzare da settentrione un fronte nuvoloso molto minaccioso e compatto che si distese sopra le teste dei discepoli e di Gesù. Nel lago, cominciarono a nascere le prime onde. All’improvviso con un bagliore intenso, accompagnò il primo fulmine; contemporaneamente arrivò la pioggia che si cominciò a rovesciare con forza sulle sponde dei villaggi di: Tiberiade (טבריה), Magdala (מגדלה), Ghinossar (גינוסאר), Cafarnao (בכפר נחום), Ein Giv (אין גיב) e tutti gli altri centri della costa. Uno spettacolo della natura a cui la gente del luogo era abituata, ma ogni volta che si presentava, diventava un “evento” da raccontare la sera quando tutta la famiglia era radunata attorno al tavolo per consumare il pasto.
Emerge con chiarezza il ruolo del mare (ים) che esercita un fascino straordinario ed è segno “dell’infinito” quando esso si distende agli occhi di chi lo contempla ma è anche un emblema del mistero più oscuro quando si scatena in una tempesta. Del mare come icona del caos e delle potenze oscure incontrollabili, parla subito il primo brano dell’odierna liturgia: dopo il suo torrenziale dialogo con gli amici, e dopo aver sfidato Dio, Giobbe si ritrova di fronte alla Parola divina. La freschezza dei simboli raccontati è straordinaria: il grembo da cui il mare erompe tumultuoso come in una nascita travagliata; la veste oscura delle nubi e delle foschie che si addensano al suo orizzonte; il portone coi catenacci e i chiavistelli entro cui il mare è trattenuto come un pericoloso carcerato. Il mare, è perciò simile ad un insicuro prigioniero che solo Dio può incarcerare e domare, come nel celebre giorno della nascita di Israele libero dalla schiavitù egiziana, durante il passaggio tra i flutti del Mar Rosso. Solo Il Creatore può piegare i mostri marini, come rimarca il salmo 74: “Tu, Signore, con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque” – אַךְ־רִ֭יק זִכִּ֣יתִי לְבָבִ֑י וָאֶרְחַ֖ץ בְּנִקָּי֣וֹן כַּפָּֽי (v.13). Il mare incarnato nella descrizione della pagina del Vangelo di oggi, sono le acque del lago, è quindi la raffigurazione del male, del nulla, del pericolo, dell’ostilità, ma soprattutto indicano l’assenza di Dio.
Il racconto comincia con l’invito quieto e tranquillo di Gesù sul far della sera: “Passiamo all’altra riva” (Διέλθωμεν εἰς τὸ πέραν). Immediatamente però la traversata, diventa rischiosa, piena di incognite e di paure per i discepoli che si trovano spiazzati in mezzo alla tempesta. Così anche noi conosciamo contraddizioni e ostacoli connessi alla decisione di seguire il Signore nel suo cammino, di fare della nostra vita una sequela di Cristo. E se è vero che le difficoltà che conoscono i discepoli sono connesse alla fede, esse, in verità, vanno riconosciute come parte della vita in quanto tale. L’esistenza umana, infatti, non è un mero dato biologico, ma è inscindibile dal senso e dalla direzione che vi imprimiamo e delle scelte che compiamo. Il Vangelo, mostra come le difficoltà del passaggio del lago siano rivelatrici delle paure, dei dubbi, dei sentimenti nascosti, di ciò che abita nel profondo del cuore degli uomini. I disagi dei discepoli nella barca, si trasformano in un dialogo burrascoso tra loro e Gesù: nel frastuono della tempesta, si porta a galla quanto prima era celato, nascosto, compresso, ma aveva solo bisogno di una spinta per emergere. Insomma, la traversata, ogni traversata, non è senza tribolazioni, pene, sofferenze, tormenti e travagli.
Dentro questa cornice, drammatica ed evocativa, Gesù reagisce nei confronti del “mare” usando le espressioni di solito applicate ai demoni: “taci, calmati”. Al versetto 38, abbiamo una svolta: “Maestro non ti importa che siamo perduti?”. La reazione di Gesù è spiazzante. Il Maestro, manifesta autorità sugli elementi naturali scatenati, pacifica il mare, e poi si rivolge ai discepoli interrogandoli sulla loro paura e sulla non-fede: “Perché avete paura?”. Scrive Sant’Agostino: “Nella nostra dottrina si chiede all’anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l’oggetto della sua paura”- [In nostra doctrina quaeritur anima credentis, non si irascitur, sed quare; non si sit tristis, sed unde sit tristitia; non utrum timeat, sed quod timendum est], (La città di Dio IX,5).
La paura si è innestata fra l’attesa dei discepoli e la realtà. Fra ciò che si aspettavano da Gesù e la realtà deludente di un uomo che dorme. Non sopportano la sua debolezza. Ci sono persone che sembra che non siano autorizzate a essere deboli, perché gli altri non ne sopportano la debolezza. Gesù non ha vergogna a mostrare la sua umanità stanca, perfino il suo addormentarsi. Un commentatore antico del Vangelo di Marco annota: “credere significa contare su Dio e sulla sua potenza anche quando si è nel gorgo del mare; significa ancora più precisamente aspettare in concreto d’incontrarlo ancora e sempre in Gesù”.
A tal proposito c’è una intensa supplica nel Salterio che comincia in questo modo: “salvami o Dio; l’acqua mi giunge alla gola. Affondo nel fango e non ho sostegno; sono caduto in acque profonde e l’onda mi travolge… Non mi sommergano i flutti delle acque e il vortice non mi travolga, l’abisso non chiuda su di me la sua bocca” (69, 2-3.16). E’ l’esperienza che tante volte assale quando la tempesta della prova, del dolore e del male, del silenzio di Dio, della crisi della fede, ci sconvolge. Ma in quella tenebra profonda, che somigli al caos primordiale prima della creazione, risuona la voce del Signore: “Tu, Signore, fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti, tu plachi il tumulto dei popoli” (65,8). Il cuore sbigottito dell’uomo inizia a rasserenarsi: l’ultima parola non è quella delle creature anche potenti come sono i venti e il mare, ma è quella del Creatore e Salvatore, che vuole che tutti gli uomini giungano alla salvezza.
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