Su uno scenario di monti, di steppe e di piccoli spazi di verde si intravede un gregge disperso e senza meta, abbandonato ai predatori, alle belve selvatiche del deserto, ai dirupi, alla sete ed alla fame. Mentre in Galilea, la regione settentrionale della Terra Santa in cui Gesù inizia la predicazione, si scorge invece una folla in movimento, ansiosa, in ricerca affannata di una guida, poiché questa massa di gente sembra simile ad “un gregge senza pastore”. Sullo scenario della città santa, l’apostolo Paolo guarda con amarezza la frontiera rigida e severa che, proprio all’interno del Tempio, divide i popoli: da un lato il cortile vociante dei Gentili, i pagani, gli incirconcisi; dall’altro, l’atrio degli ebrei che accedono al culto dalla loro posizione privilegiata. In mezzo un “muro di separazione” con targhe di marmo che comminano la pena di morte a quei pagani che avessero osato varcare quel confine sacro. A questo triplice scenario di dispersione e di divisione viene sostituito dall’odierna Liturgia della Parola un trittico parallelo di unità, di armonia e di pace. Così il profeta Geremia vede entrare in scena, su quel panorama di pecore disseminate per monti e deserti e luoghi aridi, un pastore dalla voce forte, dal progetto chiaro e giusto, dalla mano ferma come quella di Re Davide. Egli col suo intervento, voluto da Dio, raduna quel gregge votato alla morte; lo raccoglie in una terra sicura e lo regge con giustizia e amore. Le pecore non hanno più il terrore negli occhi, perché finalmente sono al sicuro e nella pace.

In questa prospettiva, il Vangelo di oggi (Marco 6, 30-34) ci racconta che gli apostoli, dopo la loro “primo annuncio”, ritornano da Gesù e gli riferiscono “tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”. Dopo l’esperienza della missione, certamente entusiasmante ma anche faticosa, essi hanno un’esigenza di riposo. E Gesù, pieno di comprensione, si preoccupa di assicurare loro un po’ di sollievo e dice: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”.

Il Signore, ascolta il resoconto degli apostoli appena tornati dalla missione, e in questo loro raccontare troviamo il motivo per cui li invita in disparte. Il Maestro non vuole che i discepoli si sentano protagonisti esclusivi del bene compiuto. Quello che essi hanno “fatto e insegnato” (Marco 6, 30), è avvenuto per l’autorità che Gesù ha dato loro, e se da parte dei Dodici vi è stato un grande impegno, il risultato è però garantito solo dal fatto che la Parola del Vangelo ha in sé una forza che supera chi la dice. E’ al contrario, molto più facile ritenere che il bene che viene da noi, quando lo facciamo, sia solo opera nostra. Invece, ci viene insegnato dal Maestro, che “quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17, 10).

Nel contesto evangelico, il riposo è motivato dalle fatiche in cui sono incorsi i missionari, ed è segno dell’attenzione di Gesù per i suoi, un “gesto umanissimo”, ma in un’altra prospettiva lascia anche intravedere uno scorcio su un concetto molto caro alla mentalità ebraica. Anche nel Vangelo di Matteo troviamo un invito al riposo («Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»; Mt 11,28), ma il tema è soprattutto presente nella Lettera agli Ebrei. Il salmo 23 aveva ripreso questa prospettiva del Dio-pastore che offre al popolo fedele il riposo per rinfrancarlo e apparecchiargli una mensa, tema che i libri sapienziali avevano a loro volta sviluppato. Il riposo dei discepoli consiste nel bere alla fonte della misericordia divina incarnata in Gesù, e saggiare la generosità e l’esigenza dell’amore con cui egli accoglie gli uomini e nello stesso tempo sfugge ai loro tentativi di raggiungerlo, per condurli sempre più avanti. Il riposo del discepolo consiste nel far propria la tenerezza di Dio per il suo popolo; così si impara a diventare apostoli. Ecco che Marco riprende ora quanto aveva già avuto occasione di scrivere al momento dell’istituzione dei Dodici, che aveva chiamati perché stessero con lui e per annunciare il vangelo (Marco 3, 14). “La deformazione professionale, che spinge perennemente i pastori a dover dare, rischia di trascurare un compito ben più importante, che è quello di stare con lui, in disparte. L’idolatria, di cui tanto parla l’Antico Testamento, nasce proprio da questa dimenticanza a stare con Dio”.

Il proposito di Gesù di far riposare i discepoli ha breve effetto. La folla li raggiunge, ed egli non chiude il cuore di fronte ai poveri. Anzi, -commenta Papa Francesco-; il maestro si commuove per la folla, che era come pecore senza pastore. Comprendiamo, allora, perché questo brano è una buona introduzione a quanto seguirà nel Vangelo e nel lezionario festivo, ovvero il racconto della moltiplicazione dei pani. Questo ci accompagnerà per diverse domeniche, dalla XVII alla XX, e lo troveremo narrato nel capitolo sesto del Vangelo secondo Giovanni. Il racconto di Marco riprenderà solo più avanti (a parte la parentesi col testo della Trasfigurazione), nella XXII domenica di questo ciclo: che Gesù dia il pane alle folle, e oggi la Chiesa lo doni ancora, è così importante, che su questo si avrà tempo di riflettere a lungo.

Dato che Gesù si è commosso nel vedere tutta quella gente bisognosa di guida e di aiuto, ci aspetteremmo che Egli si mettesse ora ad operare qualche miracolo. Invece, si mise a insegnare loro molte cose. Ecco il primo pane che il Messia offre alla folla affamata e smarrita: il pane della Parola. Tutti noi abbiamo bisogno della parola di verità, che ci guidi e illumini il cammino. Senza la verità, che è Cristo stesso, non è possibile trovare il giusto orientamento della vita. Quando ci si allontana da Gesù e dal suo amore, ci si perde e l’esistenza si trasforma in delusione e insoddisfazione. Con Gesù al fianco si può procedere con sicurezza, si possono superare le prove, si progredisce nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Gesù si è fatto dono per gli altri, divenendo così modello di amore e di servizio per ciascuno di noi.

L’introduzione al commento al Vangelo,  di questa XVI Domenica del Tempo Ordinario B a cura di Don Salvatore Lazzara, è stata rielaborata da un “commento al Vangelo” del Cardinale Gianfranco Ravasi.

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.

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