Nel cuore del Triduo Pasquale, l’Azione liturgica del Venerdì Santo si distingue per la sua essenzialità radicale: solo la Parola, la preghiera d’intercessione, l’adorazione della Croce e la comunione. In questo contesto scarno, ma densissimo di senso, ogni gesto è gravido di simbolo, ogni parola è misurata, ogni silenzio eloquente. È in questo spazio liturgico che la Chiesa propone il gesto dell’adorazione della Croce.

Una Croce nuda

Il Messale Romano parla con chiarezza: una croce nuda, da svelare progressivamente o da portare solennemente in processione. Non si tratta di una dimenticanza né di un errore: è una scelta teologica e simbolica. Infatti la croce, senza immagine, custodisce una densità pasquale che la figura del Crocifisso rischia talvolta di offuscare. Il rischio, con il Crocifisso, è quello di una sovra-identificazione con il dolore, con la sofferenza fisica, con l’immagine tragica della morte.

Ma la liturgia non celebra la morte di Gesù come tale, bensì il mistero del suo amore che attraversa la morte per trasfigurarla. La croce, in quanto segno vuoto ma carico di memoria, diventa così il “luogo simbolico” dove il credente può riconoscere, con fede, la Pasqua che già si annuncia. L’adorazione della Croce nasce ben prima dell’immagine del Crocifisso.

Il Crocifisso

È la Croce nuda, essenziale, che la Chiesa ha cominciato ad accarezzare con lo sguardo e a baciare con le lacrime, molto prima che l’arte osasse scolpire sul suo legno il corpo del Signore. Solo verso la fine del primo millennio appare, nelle nostre chiese, il Crocifisso: ma non ancora sfigurato dalla morte, bensì regale, con gli occhi aperti, vestito di luce. Il Crocifisso di San Damiano – quello che parlò a Francesco – ci mostra un Cristo vivo, già trasfigurato, quasi a ricordarci che la Croce non è la sosta definitiva del Redentore.

La Croce, prima ancora che essere teatro di morte, è soglia di risurrezione. E la liturgia del Venerdì Santo lo sa bene. Il suo canto più antico – il Pange lingua gloriosi di Venanzio Fortunato – non geme: canta. Non è il pianto di un funerale, ma l’inno di una Pasqua che comincia a vibrare sotto la cenere del Venerdì: “Il Redentore del mondo fu ucciso… e fu poi vincitore” (Pange lingua, strofe 4). È la Croce, non il sepolcro, il vessillo del Risorto.

E se l’adorazione appare già nei testi antichi, come nel Sacramentario Gelasiano (VII secolo), essa nasce come gesto del corpo e del cuore, rivolto a quel legno che ha toccato il cielo e la terra (Adorazione significa accostare la bocca, os-oris, in latino, indica la bocca). Da Gerusalemme, dove sant’Elena – secondo la tradizione – riconobbe il legno santo, fino alle nostre parrocchie, la Croce è passata di mano in mano, di secolo in secolo, ricevendo lo stesso bacio. Eteria, pellegrina nel IV secolo, vide con i suoi occhi quel rito semplice e commovente (cf. Itinerarium Egeriae, 36–37).

A Roma, il Sacramentario Gregoriano ne custodisce la memoria: la Croce – o una sua reliquia – veniva mostrata al popolo, e il popolo si prostrava. Un gesto forte, popolare, mai banale. La reliquia fu poi sostituita da una croce di legno (cf. M. Righetti, Storia liturgica, II, 174–178). Non sappiamo con certezza quando il Crocifisso – con il corpo del Cristo sofferente – venne unito alla Croce. Forse nei secoli XII e XIII, quando la devozione iniziò a contemplare le piaghe.

Lo svelamento della Croce

Non sappiamo nemmeno con precisione quando nacque lo “svelamento” della Croce nel rito: forse derivò dal gesto papale di scoprire solennemente lo scrigno contenente la reliquia sull’altare (cf. M. Righetti, Storia liturgica, II, 176). Eppure, quel gesto, così eloquente e sacro, ancora oggi sa parlare. Ma attenzione: la Croce rimanda sempre alla Risurrezione. Con delicatezza, riconosce che la Croce spoglia, come quella degli antichi inni, parla già della Pasqua. Il simbolo liturgico non è un oggetto da guardare, ma un gesto da vivere. L’adorazione della Croce, allora, non è culto al dolore, ma confessione della speranza.

È la proclamazione visibile che proprio lì, dove il mondo vedeva la sconfitta, Dio ha collocato la sua vittoria. La Chiesa, nella sua sapienza rituale, non disprezza la figura del Crocifisso – anzi, la tollera nella prassi quando la necessità pastorale o l’immaginario devozionale lo richiedano – ma, nel criterio normativo del Messale, mantiene l’indicazione della croce nuda, per conservare la tensione teologica tra morte e risurrezione, tra assenza e promessa, tra silenzio e canto.

È dunque un atto pasquale: come il sepolcro vuoto, anche la croce spoglia è un segno che non trattiene, ma rimanda; che non chiude, ma apre. Come il cero pasquale che avanza nella notte della Veglia, anche la croce del Venerdì Santo attraversa il buio della storia per annunciarvi la luce di un amore che non si lascia rinchiudere dalla morte. Per questo, quel legno – senza corpo, ma non senza presenza – viene adorato. Non per sé, non come reliquia o feticcio, ma come segno pasquale.

Come luogo dove il cielo e la terra si sono toccati. Come memoria viva del dono assoluto. Come spazio in cui l’Amore ha detto la sua ultima, definitiva parola. Nel 1955, la riforma di Pio XII sostituì il nero dei paramenti con il viola: per dire che il Venerdì Santo non è il funerale di Gesù. Oggi i paramenti sono rossi: rosso di amore versato, di sangue regale, di vittoria. La Chiesa non piange la sconfitta: canta il trionfo dell’Amore che non ha avuto paura della croce.

La velazione delle immagini

La velazione delle immagini, dalla quinta domenica di Quaresima, non è più obbligatoria (cf. Messale Romano, Precisazioni CEI; Lettera circolare Paschalis sollemnitatis, n. 26). Ma senza quel silenzio visivo, anche lo svelamento del Venerdì Santo rischia di perdere la sua forza simbolica. E allora, forse, è meglio immaginare un altro ingresso: solenne, lento, con tre soste, come per il cero pasquale nella Veglia (cf. Paschalis sollemnitatis, n. 57).

Tre fermate davanti al dolore del mondo, per farlo passare attraverso la luce della Croce. A Palermo, proprio su questo modello, si è adattata una forma che unisce le due opzioni previste dal Messale: lo svelamento avviene per gradi, nelle tre soste. Così il segno si fa cammino, e il cammino, preghiera. Il Messale francese ha scelto con sapienza di chiarire l’equivoco possibile: quando il diacono innalza la Croce dicendo “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Salvatore del mondo”, il popolo risponde: “Venite, adoriamo il Signore”. Perché l’adorazione non è rivolta al legno. Non al dolore. Ma a Colui che, sul legno, ha fatto esplodere l’amore. A Lui solo. A Colui che ha fatto della Croce un ponte tra cielo e terra. Un abbraccio che nessuna morte può più spezzare.

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Di Giuseppe Costa

Laico dell'Arcidiocesi di Palermo, ha conseguito gli studi teologici presso la Pontificia Facoltà teologica di Sicilia «San Giovanni evangelista», la licenza in Liturgia pastorale presso l'Istituto di liturgia pastorale «Santa Giustina» di Padova. È componente del ufficio liturgico dell’Arcidiocesi di Palermo e docente invitato di Liturgia presso la scuola di teologia di Base «San Luca evangelista» di Palermo. Per la Tau editrice ha pubblicato: Nella tentazione: indurre o abbandonare? Riflessioni sulla nuova traduzione italiana del Padre Nostro (Todi 2020). Una comunità dal Rito (Todi 2023). Si occupa ormai da tempo di formazione biblico-liturgica per i laici.